Elaborazione del lutto, un punto di vista transculturale

Intervista a Michele Sapucci

Michele Sapucci, da tanti anni fornisci supporto psicologico a persone di cultura minoritaria presso il Transcultural Mental Health di Sydney, cos’hai capito del lutto?

Il  lutto può essere sommariamente inteso come il processo che accompagna l’elaborazione di una perdita variamente definita (si può perdere una persona cara ma anche un lavoro o un cane). Nella  maggior parte dei casi questo processo che è emotivo, cognitivo ma anche culturale si  conclude con l’accettazione del cambiamento avvenuto. Accettazione che non è lo sparire del dolore ma il sorgere della consapevolezza che si può andare avanti anche “senza di”.

In tale processo ci sono fasi tipiche?

Il lutto procede per fasi non rigide, interscambiabili, seguendo percorsi che hanno molto a che vedere con l’esperienza del singolo, spesso c’è un andare avanti per poi tornare indietro ed infine giungere ad una fase prima mai raggiunta, magari saltandone un paio. Sulle varie fasi del lutto sono stati versati fiumi d’inchiostro, elaborate e confutate centinaia di teorie.

A me piace la concettualizzazione di Parkes and Bowlby. Inizialmente c’è lo shock accompagnato spesso da un senso generale di ottundimento che è emotivo, cognitivo ed anche fisico, soprattutto se la perdita è inaspettata o traumatica. Poi il dolore comincia a farsi sentire e con esso lo spesso insopportabile desiderio e ricerca/speranza di quello che si è perso.

Qui siamo nel pieno della tempesta emotiva del processo di lutto e si può provare di tutto: rabbia, depressione, ansia. Poi c’è il crollo (Parkes and Bowlby parlano di scompenso e disperazione) ovvero la perdita comincia ad essere vissuta come definitiva e questo fa male ma, in lontananza, spesso invisibile a chi ne soffre, c’è l’accettazione. Nell’ultima fase, quella della riorganizzazione e del recupero la persona comincia ad accettare più compiutamente la perdita, la vita ricomincia si potrebbe dire, ci si accorge che si riesce sempre più ad andare avanti provando piacere nel fare le cose, si sa che le cose non torneranno più come prima ma si è pronti ad andare avanti.

La cultura e l’esperienza migratoria influiscono sul percorso di lutto?

Tanto, tantissimo. Innanzitutto la cultura fornisce gli strumenti per spiegare la perdita, soprattutto se ci concentriamo sull’aspetto religioso-spirituale: perché la persona è morta? Dove va quando è morta? Cosa debbo fare io che sono rimasto vivo? Come posso superare il dolore? Ogni cultura ha le sue risposte. Poi la cultura fornisce delle regole, delle norme sociali sul come ci si deve comportare dal momento della morte fino al funerale ed oltre. Stiamo parlando dei riti funebri, dei comportamenti sociali da tenere e quelli ritenuti sconvenienti, del periodo di lutto ritenuto accettabile, di come si devono comportare amici, parenti e familiari vari.

La cultura, banalizzando, è un manuale d’istruzioni per l’uso. Ricordo ancora con sorpresa un mio amico delle Fiji, a cui morii la madre, pararsi davanti a me con capelli e barba lunghissimi perché, come mi spiegò lui in seguito, il periodo di lutto nella sua cultura dura cento notti durante le quali agli uomini è proibito tagliare barba e capelli, tanto per citare un esempio di differenze culturali.

Interessantissimo dal punto di vista psicologico è anche il come il percorso migratorio influenzi l’elaborazione del lutto, dove per percorso migratorio si intende il perché e il come una persona giunga nella sua nuova patria ma anche l’adattamento al nuovo ambiente: il pre, durante e il post emigrazione.

Ad esempio?

Cominiciamo col pre e il durante. La parola chiave qui è trauma. Se la persona o tutta la sua famiglia è stata vittima di violenza (stiamo pensando specificatamente ai rifugiati) , persecuzione o tortura sia nel paese d’origine che durante il viaggio allora il processo di lutto descritto ha il potenziale di complicarsi in tutte le sue fasi, prolungandosi eccessivamente, divenendo più gravoso emotivamente o addirittura non terminando nella fase dell’accettazione, a volte continuando all’infinito.

Nel post emigrazione (quando si è nel nuovo paese) la variabile fondamentale è invece quanto supporto sociale ha la persona, o la famiglia, che sono in fase di elaborazione del lutto, quanto e quant’è forte il capitale umano a disposizione: amici, parenti, leader religiosi. Altro fattore fondamentale è se c’è la possibilità di fare visita alla persona che sta morendo, punto fondamentale in periodo di Covid, ma ancora più fondamentale per coloro che (per esempio i rifugiati) a casa non possono tornare. In casi come questi viene a mancare un elemento fondamentale del processo di lutto, ovvero il dire addio alla persona cara. Un’esperienza molto stressante che può creare un irrazionale senso di colpa molto difficile da gestire.

Michele, nell’editoriale ci siamo spinti in un parallelismo forse troppo azzardato fra l’elaborazione del lutto e l’elaborazione del fallimento imprenditoriale (la perdita della propria impresa). L’intento era capire se ci sono elementi di conoscenza che possiamo utilizzare a supporto degli imprenditori migranti con cui lavoriamo. Cosa facciamo, proseguiamo la riflessione o lasciamo perdere?

La domanda apre un capitolo molto ampio di cui parlerei volentieri in futuro. Diciamo però che il lutto è la perdita di qualcuno ma anche di qualcosa, quindi direi che il paragone è tutt’altro che campato in aria, anzi. Se la perdita dell’azienda è improvvisa e inaspettata. si potrebbe parlare di “lutto traumatico”. Se è lenta e tormentata invece si potrebbe parlare di “lutto anticipatorio” che si verifica quando si sa che prima o poi ci sarà una perdita, pensate a coloro che vedono un loro caro morire di Alzheimer.

Volendo, lo stato stesso di essere un emigrante è in qualche modo una situazione di perdita e di mancanza: del proprio paese, della propria cultura, dei propri amici e, talvolta, della propria famiglia. Quello che vedo io per esempio è che per molti emigranti il lavoro, il possedere un’azienda in questo caso, ha un valore di prestigio sociale altissimo, perché molto forte è la componente di riscatto sociale,  ne consegue che la perdita della propria attività può minare profondamente l’identità di una persona.

Ricordo un mio paziente di origine indiana la cui azienda era fallita che mi diceva che erano mesi che ogni mattina usciva di casa armato di giacca, cravatta e valigetta, ma poi non andava da nessuna parte, perché la ditta non c’era più. Si vergognava, non voleva farlo sapere alla moglie e alla comunità. Se questo non è la reazione a un lutto, non saprei come altro classificarlo.


Michele Sapucci è responsabile di programma: area promozione e prevenzione della salute mentale presso il Transcultura Mental Health Centre di Sydney

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